Anche in Europa la parità comincia dal nido

Asili nido o nonni? I servizi di custodia dei bambini in età prescolare variano molto a seconda dei paesi, con conseguenze importanti sulla parità di genere

Pubblicato il: Novembre 21st, 2017
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Anche in Europa la parità comincia dal nido

Asili nido o nonni? I servizi di custodia dei bambini in età prescolare variano molto a seconda dei paesi, con conseguenze importanti sulla parità di genere

Investire nei servizi all’infanzia è positivo per la società nel suo insieme. Fin dai primi anni 2000 le istituzioni europee hanno ribadito questa posizione, fondata su un largo consenso scientifico. La disponibilità di servizi di prescolarizzazione destinati ai bambini più piccoli (asili nidi, giardini d’infanzia e così via) ha almeno tre grandi vantaggi.

Per prima cosa, favorisce l’uguaglianza tra donne e uomini contribuendo così a liberare le prime dai compiti parentali che, in assenza di servizi mirati, ricade quasi sempre su di loro. In secondo luogo, queste politiche sono uno strumento efficace di lotta contro la povertà, poichè consentono alle donne – a prescindere dal loro livello di qualifica – di rimanere nel mercato del lavoro senza dover sacrificare la propria carriera.

Infine questi strumenti possono contribuire anche alla diminuzione delle difficoltà di apprendimento e delle disuguaglianze scolastiche. Di fatto, la disponibilità di servizi per l’infanzia e la prescolarizzazione favorisce lo sviluppo delle capacità cognitive, di espressione e la fiducia in se stessi dei bambini, così da contribuire a prepararli alle esigenze della scuola. Meno difficoltà di apprendimento significa meno difficoltà sul mercato del lavoro e quindi un rischio minore di povertà in età adulta.

Grazie a queste ricadute positive, le politiche per l’infanzia sono spesso presentate come un “investimento sociale”. In altre parole queste politiche, anche se costose, possono rivelarsi “redditizie” permettendo di prevenire le difficoltà sociali (descolarizzazione, povertà femminile, disoccupazione, delinquenza, ecc.) anziché doverle trattare a posteriori, cosa che potrebbe rivelarsi ancora più costosa.

Allo stesso modo lo Stato, permettendo alle donne di dare continuità alla propria carriera e quindi di aumentare il reddito percepito nell’arco della vita professionale, può rimborsare il proprio investimento attraverso l’aumento delle entrate – maggiori contributi sociali e imposte sul reddito – che questa dinamica produce per le finanze pubbliche.

Gli ultimi dati disponibili mostrano però l’esistenza di forti disparità tra i paesi europei nell’ambito dei servizi per l’infanzia. Questo è vero in particolar modo per quanto riguarda i servizi destinati ai primi anni di vita: il tasso di accoglienza dei bambini da 0 a 2 anni varia dal 5 al 65 per cento a seconda del paese di riferimento. I dati disponibili non permettono però di risalire alla percentuale rispettiva dei diversi tipi di servizi per l’infanzia: non è quindi possibile distinguere tra strutture collettive (asili nido e simili) e individuali (assistenti materne). Di fatto solo i primi sono davvero incoraggiati perché più adatti a sviluppare le capacità scolastiche dei bambini e accessibili anche da parte di famiglie meno abbienti.

Va inoltre notato che anche all’interno dei singoli paesi, nella maggior parte dei casi l’accesso alle istituzioni per la prima infanzia è poco egualitario. In effetti la partecipazione dei bambini di famiglie benestanti è sempre più alta di quella delle famiglie più povere, a eccezione di alcuni paesi come la Danimarca, la Svezia e la Slovenia. Le variazioni sono un po’ meno marcate per quanto riguarda la partecipazione ai programmi scolastici dei bambini da 3 a 5 anni, ma rimangono comunque significative. In Francia, ad esempio, viene scolarizzata la totalità dei bambini nella fascia 3-5 anni, mentre la Grecia ne scolarizza meno della metà.

Un’analisi cronologica conferma che, nonostante lo sviluppo generale e progressivo di queste politiche, tra i paesi europei restano forti disparità. Confrontando la quota del Pil dedicato ai servizi per l’infanzia (prima dei sei anni) tra il 2000 e il 2013 si nota infatti che l’investimento è aumentato di più (fino al 150% della quota iniziale) proprio nei paesi del nord Europa, che facevano già parte dei paesi più all’avanguardia del continente. Le curve indicano inoltre che gli sforzi in questa direzione sono rallentati dopo il 2008, segno che probabilmente le politiche per la prima infanzia hanno subito le conseguenze della crisi finanziaria scoppiata in quel momento.

L’Europa della prima infanzia è quindi tutt’altro che unita. I dati del 2013 mostrano che la percentuale del Pil dedicata a queste politiche varia notevolmente, con alcuni paesi che spendono il triplo rispetto ad altri. Anche in questo caso, come accade spesso in materia di politiche per la famiglia, l’Europa del nord spicca per investimenti nelle politiche sociali pubbliche e universali, e si oppone a un’Europa del sud e a un’Europa centrale caratterizzata da sistemi più tradizionali.

Il livello di investimento nella prima infanzia sembra così dipendere in larga parte dalla diversa natura dei modelli sociali europei. Ma questo è vero solo in parte: uno studio recente che mette a confronto la creazione di posti negli asili nido in Francia e in Germania a partire dal 2006 mostra come in quest’ultimo paese la tendenza sia stata molto più dinamica. Questo risultato è prima di tutto il frutto della “presa di coscienza” del fatto che l’attribuzione alle donne della custodia dei figli avrebbe comportato delle difficoltà per il mercato del lavoro (forte tasso di lavoro part-time femminile) e un tasso molto basso di fecondità (1,35 bambini per donna dall’inizio degli anni 2000). Questi motivi, a cui si aggiungono i cattivi risultati degli studenti tedeschi ai test Pisa del 2001, ha portato a una mobilitazione importante in favore della creazione di asili nido.

Da un punto di vista comparativo, la Francia – meglio piazzata per quanto riguarda la fecondità e il lavoro femminile – offriva migliori capacità di accoglienza grazie a un forte sviluppo dell’accoglienza individuale (assistenti materne), ma ha tardato a riconoscere le forti disparità che genera il suo modello scolastico, e il ruolo che poteva svolgere nella loro prevenzione l’investimento nelle strutture di accoglienza collettive.

Gli autori dello studio insistono soprattutto sulle diversità istituzionali tra i due paesi. In Germania il finanziamento e le procedure amministrative per chi crea o ingrandisce un asilo nido sono stati semplificati al massimo. Inoltre, dal 2013 le autorità locali hanno l’obbligo di risarcire i genitori che non hanno ottenuto un posto all’asilo nido per il loro figlio. In questo modo è stato creato un incentivo diretto a rispondere alle esigenze e ai bisogni della popolazione in materia di servizi di prescolarizzazione e custodia per l’infanzia.

Il modello francese appare al contrario molto più diviso: interlocutori diversi agiscono in modo non coordinato e senza degli obiettivi vincolanti. Il calo dei posti disponibili negli istituti per l’infanzia nel periodo 2006-2014 si spiega con il fatto che la creazione di posti negli asili nido, di competenza delle autorità locali, è stata più che compensata dalla riduzione significativa, nello stesso periodo, del numero di bambini ammessi alla scuola materna a due anni, conseguenza delle decisioni del ministero dell’Istruzione.

I fattori istituzionali hanno quindi molta importanza nell’estensione e nell’efficacia delle politiche per la prima infanzia. I sistemi più funzionali sono spesso quelli pubblici e collettivi, che consentono ai bambini di crescere in un sistema istituzionale integrato dalla loro nascita fino ai sei anni. Oltre alla già citata Germania, solo sette paesi hanno instaurato il diritto legale alla custodia dei bambini più piccoli da parte di istituzioni pubbliche: la Norvegia, la Svezia, la Finlandia, la Danimarca, l’Estonia, la Slovenia e Malta.

Al netto dell’investimento finanziario richiesto, lo sviluppo dei servizi di accoglienza per la prima infanzia presuppone delle scelte politiche forti, che non tutti i paesi europei sono pronti ad assumersi.

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