Debito pubblico: l’Europa non fa paura

La crisi dei subprime ha avuto forti ripercussioni in Europa dovute alla mancanza di fiducia degli investitori internazionali riguardo alla capacità di alcuni paesi della zona euro di rimborsare il proprio debito pubblico. A che punto siamo oggi? 

Pubblicato il: Novembre 24th, 2018
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Debito pubblico: l’Europa non fa paura

La crisi dei subprime ha avuto forti ripercussioni in Europa dovute alla mancanza di fiducia degli investitori internazionali riguardo alla capacità di alcuni paesi della zona euro di rimborsare il proprio debito pubblico. A che punto siamo oggi? 

Foto: Slovenia : “Freedom? When I am up to my neck in debt?”. Lars Plougmann/Flickr 

Anche se la ripresa economica si fa sentire restano, da un lato, alcuni paesi con un alto livello di indebitamento e, dall’altro, la produzione sembra già rallentare. Una nuova crisi del debito pubblico è alle porte?

Come si è evoluto il debito pubblico?

Per comprendere al meglio la dinamica del debito dei paesi europei, dobbiamo fare un passo indietro. Considerando la prospettiva storica a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, notiamo come il debito pubblico sia cresciuto in maniera quasi continua sin dalla fine degli anni Settanta, ad eccezione dell’Italia dove, a causa della deregolamentazione dell’economia, il debito ha iniziato a crescere negli anni Sessanta. Secondo l’economista dell’università Paris I Bruno Tinel, questa evoluzione è riscontrabile in altri paesi industrializzati non europei e rappresenta “un elemento ricorrente del periodo neoliberista”.

Questo periodo fu caratterizzato innanzitutto dal forte aumento dei tassi d’interesse tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta: la priorità data alla lotta contro l’inflazione spinse le banche centrali a aumentare fortemente il livello dei tassi. Di conseguenza il costo del debito schizzò alle stelle e, dal momento che una parte crescente del nuovo debito serviva a rimborsare il vecchio, si innescò un deleterio effetto valanga.

In seguito, gli abbassamenti delle tasse inaugurati con gli anni Ottanta vennero rafforzati all’inizio del nuovo millennio: le aliquote fiscali sui redditi più elevati, sui profitti delle imprese e sui redditi da capitale (in quest’ultimo caso, in maniera diversa a seconda del paese) vennero abbassate.

Meno entrate fiscali significa un aumento del deficit e del debito, a meno di non mettere in atto politiche drastiche di tagli della spesa pubblica, che hanno però conseguenze sulla crescita.

Bisogna inoltre aggiungere che quando le diseguaglianze sociali si acuiscono e, parallelamente, si registra un aumento della ricchezza, sono le persone più propense al risparmio che al consumo che vedono i loro redditi aumentare. Inoltre, con il capitalismo azionario, i profitti si trasformano più spesso in dividendi che in investimenti.

Si tratta, insomma, di elementi che pesano sul ritmo di crescita e contribuiscono a far salire il rapporto debito-Pil. Infine, i paesi europei hanno subito il contraccolpo di una crisi dei subprime, in parte causata dalle politiche di liberalizzazione finanziaria e dalla crescita della bolla immobiliare.

Una politica monetaria molto rigorosa, i tagli nelle entrate  fiscali, la finanziarizzazione dell’economia, l’aumento delle diseguaglianze e la deregolamentazione finanziaria rappresentano i principali elementi di matrice liberista reponsabili della crescita del debito pubblico in Europa.

2. Chi possiede il debito?

Chi sono gli investitori che hanno fiducia nei paesi europei? Con le politiche monetarie definite di quantitative easing, ovvero l’acquisto di titoli di debito pubblico delle banche centrali della zona euro da parte della Banca centrale europea (Bce), la questione è cambiata. Di conseguenza, la fetta di investitori nazionali si è espansa in modo notevole e le banche centrali nazionali detengono circa il 20 per cento dei debiti pubblici. Di contro, il peso degli investitori stranieri ha cominciato a diminuire.

A partire da gennaio 2019 la Bce non acquisterà più nuovi titoli di debito pubblico. Questa decisione avrà un effetto sulla capacità di finanziarlo? In teoria no, e per due ragioni.

Da una parte, ogni volta che i titoli già detenuti arriveranno a scadenza, la banca centrale continuerà a reinvestire denaro in nuovi debiti. Dall’altra, gli investitori in cerca di posizioni prive di rischi in Europa vedono il mercato del debito tedesco ridursi: il paese accumula surplus di bilancio e rimborsa il suo vecchio debito senza crearne di nuovo. Numerosi investitori dovrebbero dunque spostare sempre più la propria attenzione verso i debiti degli altri paesi.

3. A cosa è servito il denaro?

Un debito, anche se tenuto sotto controllo e finanziato, può comunque diventare inquietante se i soldi sono stati utilizzati in modo irresponsabile. Ma questo non è il caso, o comunque non lo è più, per l’Europa. Un semplice indicatore permette di rendersene conto: è sufficiente calcolare il deficit di bilancio esclusa la spesa per investimenti pubblici. Se il deficit permane o addirittura aumenta, questo significa che è provocato da un surplus di spesa per sostegno e rimborso del debito, in rapporto ai provvedimenti fiscali. Una situazione che, per quanto sostenibile, rappresenta un brutto segno.

A che punto siamo? A partire dall’inizio degli anni 2000, per la zona euro nel suo insieme, il saldo di bilancio esclusi gli investimenti pubblici ha superato l’equivalente del 0,4 per cento sul Pil. Il debito degli stati è quindi generalmente servito per finanziare integralmente gli investimenti, lasciando anche un piccolo surplus per le altre amministrazioni pubbliche. Soltanto gli anni di forte rallentamento dell’attività (il periodo della crisi dei subprime e della zona euro) corrispondono a situazioni deteriorate, anche molto deteriorate per paesi come Spagna e Portogallo (lasciando da parte in quest’analisi la situazione eccezionale della Grecia). Ma tutti i paesi sono ritornati (o quasi, come possiamo vedere in Spagna e Italia) a una situazione strutturale più sana. Ciò non determina però la loro condizione futura.

4. Dobbiamo preoccuparci del costo?

All’interno del dibattito pubblico, l’abitudine diffusa è misurare il debito in percentuale sul Pil: è una consuetudine che facilita i paragoni a livello internazionale, ma questo non significa che sia sensata sul piano economico. Il debito è una giacenza accumulata che viene paragonata a un flusso, ovvero la produzione di ricchezza su base annua:non esistono livelli predeterminati di debito su Pil che permettano di sapere se la situazione sia sostenibile o no.

Quello che è più pertinente è la questione del costo del debito. Gli interessi pagati ogni anno in percentuale su Pil riportano, di fatto un flusso a un flusso e, di conseguenza, un rapido aumento del rapporto segnala sicuramente un problema. Da questo punto di vista il costo a lungo termine del debito pubblico dei paesi europei è nettamente orientato al ribasso.

Quando le banche centrali si sono impegnate ad avviare politiche monetarie restrittive per lottare contro l’inflazione, i tassi d’interesse sono saliti notevolmente. Questo ha inciso notevolmente sugli interessi da pagare sul debito pubblico, culminati all’equivalente del 5 per cento sul Pil a metà degli anni Novanta per alcuni paesi, toccando punte del 10 per cento per l’Italia. Da quel momento, il costo del debito non ha smesso di diminuire.

La prospettiva della creazione della zona euro ha dato fiducia agli investitori, che hanno fortemente sovvenzionato a bassi costi i debiti pubblici europei   a volte con eccessi di zelo   senza considerare le capacità di rimborso dei paesi, come avvenuto per la Grecia.

In seguito il livello di risparmio mondiale per gli investimenti ha raggiunto un livello più elevato rispetto a quello che imprese e pubbliche amministrazioni erano pronte a investire, spingendo al ribasso il costo del denaro, quindi i tassi d’interesse.

Dopo la crisi finanziaria e quella della zona euro, le politiche monetarie delle banche centrali hanno contribuito a mantenere bassi  i tassi d’interesse, ma questi ultimi, in ragione del surplus di risparmio mondiale, si stavano già abbassando prima dell’intervento delle banche centrali.

La fine del quantitative easing avverrà in maniera molto progressiva poiché la Bce reinvestirà, per un periodo di tempo il cui termine non è ancora stato fissato,  ciò che otterrà in rimborsi. La stessa Banca centrale europea ha d’altronde segnalato che comincerà gradualmente a aumentare i propri tassi d’interesse solo dopo l’estate 2019. Infine, l’abbassamento del volume del debito tedesco, come abbiamo visto, dovrebbe incitare gli investitori ad acquistare titoli di debito europei, e ciò contribuirà anche a mantenere il suo costo a un livello tendenzialmente basso. Questa evoluzione può essere messa in discussione in ogni momento dalle scelte di politica di bilancio di ogni paese: abbiamo visto, ad esempio, il nervosismo manifestato dagli investitori di fronte agli annunci della nuova maggioranza in Italia.

5. Quindi nessuna preoccupazione?

Non c’è quindi nessun motivo di preoccupazione riguardo ai debiti europei? Purtroppo sì, ce ne sono tre.

Innanzitutto, se l’attuale livello sembra sostenibile e poco oneroso per quasi tutti i paesi, una nuova crisi di dimensioni significative (ad esempio delle tensioni nella zona euro che possano scaturire da problemi di bilancio in Italia, oppure una Brexit “dura”, o il  clamoroso fallimento di una Deutsche Bank in cattive condizioni, ecc.) porterebbe il debito a un livello più rischioso e meno controllabile. A esclusione della Germania, che ha un livello basso di indebitamento, gli altri paesi europei devono gestire l’aumento del proprio deficit pubblico e del proprio debito, per poter avere margini di manovra a livello di bilancio nel caso di una prossima crisi.

Inoltre, tralasciando questi avvenimenti congiunturali, una delle tendenze strutturali riguardo l’aumento dei debiti è provocata dall’ideologia anti-tasse dei governi di qualsiasi tendenza politica che si sono succeduti. In Francia per esempio, il presidente Macron prosegue con la stessa linea e sposa la stessa volontà di riduzione del debito, mentre si priva di strumenti per raggiungere l’obiettivo eliminando ricavi fiscali. Anche la Commissione europea sembra sempre dell’opinione che l’abbassamento delle imposte sia per sé stesso positivo, nonostante richieda un controllo sul deficit.

Infine, se dobbiamo preoccuparci del debito, perché non prestare attenzione anche a ciò che avviene in ambito privato? Da questo punto di vista, la situazione dei paesi europei appare molto contrastata: innanzitutto, il debito delle imprese portoghesi e spagnole sembra sempre più sotto controllo. Le aziende tedesche mostrano un debole tasso d’indebitamento, ma è il segno di un un livello di investimenti troppo basso e dannoso a medio termine, mentre la situazione negativa del settore bancario italiano frena il finanziamento dell’economia.

Preoccupazione inversa per la Francia, eccezione nella zona euro: le sue imprese mostrano un livello di indebitamento ben più alto e in aumento rispetto a quello del comparto pubblico. Se una parte delle queste risorse ha permesso di migliorare il livello di cassa, le grandi imprese francesi sembrano anche impegnate in un pericoloso gioco speculativo: Il debito netto (il debito meno la cassa) tende ad aumentare più rapidamente rispetto al valore aggiunto, ovvero la ricchezza prodotta dalle attività produttive, e ciò segnala un divario crescente tra le attività finanziarie e quelle dell’economia reale.

Senza parlare di debito, dunque, non dimentichiamo di occuparci anche del livello e delle dinamiche dei debiti privati: possono anch’essi mettere in luce aspetti disfunzionali delle economie europee.

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