È stata una buona idea delocalizzare l’industria farmaceutica europea?

L'epidemia di COVID-19 ha fatto rivivere i timori di carenza di farmaci in Europa, scatenando inviti a rimpatriare la produzione di sostanze farmaceutiche dagli impianti in Cina. Ma servirebbero anni per ricostruire la medesima capacità produttiva in Europa, se anche fosse possibile. 

Pubblicato il: Marzo 11th, 2020
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È stata una buona idea delocalizzare l’industria farmaceutica europea?

L’epidemia di COVID-19 ha fatto rivivere i timori di carenza di farmaci in Europa, scatenando inviti a rimpatriare la produzione di sostanze farmaceutiche dagli impianti in Cina. Ma servirebbero anni per ricostruire la medesima capacità produttiva in Europa, se anche fosse possibile. 

Tecnici controllano la qualità di alcuni medicinali (foto: © Sergey Kolesnikov/Shutterstock )

Basta il battito d’ali di una farfalla da qualche parte in Asia – o la tosse secca di un lavoratore in una linea di assemblaggio nella provincia di Zhejiang, nella Cina orientale – perché la catena di approvvigionamento globale si fermi. Milioni di europei potrebbero essere di conseguenza privati di smartphone, valigie, smoking, scarpe e biancheria intima, giocattoli di peluche, salvadanai… E, cosa più preoccupante, farmaci. 

Data l’eccessiva dipendenza dell’Europa dalla “fabbrica del mondo”, la Cina, non c’è dubbio che l’approvvigionamento sicuro e continuo di medicinali essenziali sia ora minacciato. 

Le carenze dei farmaci generici

Va detto che non sono i farmaci nuovi e più costosi a essere i più vulnerabili. “Quelli vengono esauriti raramente”, osserva Jean-Paul Vernant, oncologo presso l’ospedale La Pitié-Salpétrière di Parigi. 

Al contrario sono i farmaci generici – gli equivalenti meno costosi degli originali ormai fuori brevetto, che svolgono un ruolo fondamentale nel garantire l’accesso a un’assistenza sanitaria di qualità in tutta Europa – che potrebbero finire. 

Ci sono diverse ragioni per questa situazione. Una è la scelta fatta dalle grandi aziende farmaceutiche europee negli ultimi trent’anni, ovvero esternalizzare massicciamente in Cina la fabbricazione dei cosiddetti principi attivi farmaceutici (Active Pharmaceutical Ingredients, API), cioè le molecole chimiche che conferiscono ai farmaci i loro effetti terapeutici. Si tratta di una scelta che si basa su criteri prettamente economici. 

Gli antibiotici più comuni, come l’amoxicillina, gli antidolorifici come l’aspirina e il paracetamolo, i vaccini contro l’epatite B, persino i farmaci salvavita per il trattamento del cancro, come il busulfan e l’acido zolendrico, sono già stati più volte a rischio. 

Secondo l’Agenzia francese per i farmaci, in Francia 538 farmaci di “grande interesse terapeutico” sono stati carenti nel corso del 2017. Un aumento di 12 volte in 10 anni. Solo nella prima metà del 2019, nei Paesi Bassi ci sono state 2.044 segnalazioni di carenze imminenti o effettive, rispetto alle 1.390 dell’intero anno precedente. I pazienti sono stati costretti ad accontentarsi di farmaci meno efficaci, o di rinunciarvi.

In Cina le cose possono precipitare velocemente. Ne sono degli esempi la chiusura forzata da parte del governo di 150 strutture per motivi ambientali tra il 2016 e il 2018, e scandali come quello dell’eparina adulterata del 2008.

L’ultima storia horror è lo scandalo del valsartan, un comune farmaco per la pressione. Si è scoperto che conteva nitrosammina, una sostanza chimica cancerogena (di solito usata per produrre carburante liquido per razzi). Il clamore ha scatenato un richiamo globale dei prodotti nel luglio 2018.

Verso un cambio di rotta

In un simile contesto, l’epidemia di COVID-19 è solo l’ultimo di una serie di fallimenti e disastri. Questa volta le linee di produzione di API nelle regioni costiere industrializzate della Cina sono state interrotte, portando a una carenza di materie prime in India, che a sua volta è specializzata nell’esportazione dei farmaci finiti. 

Per il ministro francese dell’economia e delle finanze Bruno Lemaire questo nuovo episodio segna l’occasione per un “cambio di rotta”. Sulla scia dell’epidemia Lemaire chiede un ripensamento della globalizzazione, definendo “irresponsabile e irragionevole” l’eccessiva dipendenza dell’Europa dalla Cina. Una dichiarazione quanto meno stupefacente da parte di un ex entusiasta sostenitore della concorrenza libera e sfrenata. 

È il momento di affrontare il problema alla radice, concorda Christoph Stoller, presidente di Medicines for Europe, che rappresenta l’industria dei farmaci generici. Non basta più accontentarsi di mezze misure, come l’intensificazione delle ispezioni in loco da parte dell’Agenzia europea del farmaco, o la garanzia (almeno per i prodotti essenziali) che le filiere non siano vulnerabili a un singolo punto di rottura (cosa che può rivelarsi comunque impossibile, visto che alcuni ingredienti sono prodotti da un unico stabilimento certificato in Cina). È tempo, in altre parole, di rimpatriare in Europa la produzione dei principi attivi farmaceutici essenziali.

Paradossalmente un simile cambiamento è già timidamente in corso dal 2013. A causa delle incertezze politiche in Asia e dei ricorrenti scandali sulla sicurezza, come si è detto, le grandi case farmaceutiche hanno iniziato a guardare sempre più all’Europa per trovare fornitori più sicuri e di qualità. 

Ma questo riguarda soprattutto gli ingredienti farmaceutici altamente attivi (Highly Potent Active Pharmaceutical Ingredients, HPAPI), una nuova generazione di farmaci che richiedono un dosaggio minore e sono molto lucrativi. Per questi farmaci, gli API rappresentano circa il 10 per cento del costo – contro fino al 40 per cento nei generici.  

Sanofi, ad esempio, potrebbe decidere di aumentare la produzione di API nell’Unione europea, combinando in un’unica entità i suoi siti attualmente presenti in Italia, Germania, Regno Unito, Francia e Ungheria. L’obiettivo è affermarsi come attore di primo piano entro il 2022. Non è però chiaro se – e forse è improbabile – questo includa la produzione di quegli ingredienti ad alto volume di produzione e a basso margine di profitto che sono necessari per la fabbricazione di farmaci non coperti da brevetto – meno redditizi, ma comunque di importanza critica. 

Gli sforzi dell’India 

Nella confusione l’Europa non è sola. Negli Stati Uniti l’80% degli antibiotici proviene dalla Cina, secondo le stime del Dipartimento del Commercio. Di questi, arriva dalla Cina il 95% dell’ibuprofene, il 91% dell’idrocortisone e il 45% della penicillina. Nonostante la minaccia del presidente Trump di aumentare le tariffe su una serie di importazioni cinesi, le forniture mediche sono al momento esenti. Gli API sono quindi per ora esclusi dalla guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti. 

L’India, soprannominata “la farmacia del mondo” per il suo ruolo di leader nell’esportazione di prodotti finiti – e che, come l’Europa, produceva la maggior parte dei suoi ingredienti farmaceutici a livello locale prima di entrare nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 1995 – dipende ora dalla Cina per il 70% degli API cinesi, delle materie prime registrate (Registered Starting Material, RSM) e di sostanze intermedie, afferma la Direzione generale per l’informazione e le statistiche sul commercio dell’India. 

Negli ultimi cinque anni gli sforzi del governo indiano per investire nel settore o per garantire accordi di acquisto hanno prodotto risultati scarsi o nulli. Questo perché, mentre in India il costo della manodopera è paragonabile a quello della Cina, sulle API esiste ancora una significativa differenza di prezzo tra i due paesi. Il principale punto di forza della Cina, come per altri settori industriali, sta nella scala della sua attività, immensa e senza paragoni al momento.

La potenza industriale cinese

La Cina negli ultimi vent’anni ha costruito un formidabile arsenale di produzione di API, che gira al 70% della capacità (contro il 30-40% dell’India). Questo le permette di ottenere prezzi dal 30 al 40% inferiori alla media globale, nonostante l’aumento del costo del lavoro e la recente applicazione di norme ambientali più severe. 

I produttori cinesi hanno la fortuna di godere di un’ampia varietà di ambienti che consente l’estrazione di una vasta gamma di materie prime (tra 1.500 e 2.000 tipi diversi). Godono anche di generose sovvenzioni pubbliche, e di sostegno bancario sotto forma di prestiti a tassi d’interesse minimi. Ad esempio, la Zhejiang Huahai Pharmaceutical (ZHP), il principale produttore di componenti utilizzati nei farmaci per la pressione e per il morbo di Alzheimer, ha ricevuto 44,4 milioni di dollari di finanziamenti statali nel 2018, stando al rapporto annuale dell’azienda. 

La totale produzione cinese di farmaci ha raggiunto 9,5 milioni di tonnellate (2,5 per i soli API) nel 2019, di cui 1,9 milioni sono andati all’Europa. Le esportazioni sono cresciute in media del 3,8% negli ultimi anni, per un valore di circa 30 miliardi di dollari. E la tendenza sembra destinata a continuare, dal momento che tra il 2020 e il 2024 è previsto che molecole brevettate per un valore di 160 miliardi di euro diventeranno di pubblico dominio.

Riallocare i profitti delle grandi aziende

L’Europa si trova di fronte a un dilemma. Rispetto all’India è svantaggiata sul piano del costo del lavoro, e il suo mercato dei farmaci ha una struttura dei prezzi che, secondo alcuni, impedisce una produzione economicamente efficiente. Stando così le cose, come potrebbe fare per rimpatriare la produzione di API per i farmaci generici senza causare un’impennata dei prezzi o prosciugare i fondi per l’innovazione destinati ai laboratori? 

Per il Roosevelt Institute, un think tank americano con sede a New York, il dilemma è facile da risolvere: il problema sta altrove. In un momento in cui le aziende farmaceutiche stanno generando profitti record, le risorse vengono in gran parte allocate agli azionisti e ai dirigenti, a scapito degli investimenti produttivi. Sette delle dieci più grandi aziende farmaceutiche negli Stati Uniti, si legge nel rapporto  dell’istituto, hanno speso oltre il 100% dei loro profitti per premiare gli azionisti. Tra queste, le giganti AbbVie (318%), Eli Lilly (202%), Merck (232%) e Pfizer (182%).

In ogni caso, senza un approccio globale a lungo termine a livello europeo per stimolare gli investimenti, emulare la ricerca e lo sviluppo sulle materie prime essenziali e accelerare l’approvazione di ingredienti alternativi, è improbabile che l’Europa recuperi la sua indipendenza. È quanto conclude un documento di lavoro della European Fine Chemicals Group, la lobby dei produttori di componenti per farmaci generici a Bruxelles.

Un processo di lunga durata

Ci vorrà tempo per recuperare l’autonomia europea nel campo dell’industria farmaceutica. Secondo gli esperti del settore, ci vogliono due anni per trasferire un singolo prodotto verso un sito di produzione esistente. Il processo richiede dei protocolli di crescita, di convalida e di stabilità e le registrazioni d’uso, oltre a un esercito di tecnici specializzati. Per progettare, costruire e attrezzare da zero un impianto ci vogliono invece cinque anni in media.

Eppure c’è speranza. Negli Stati Uniti, di fronte a carenze e prezzi elevati, 900 ospedali hanno deciso nel 2018 di unire le forze e lanciare Civica RX, una società farmaceutica senza scopo di lucro che produce farmaci generici. Alla fine del 2019 ha consegnato il suo primo lotto di vancomicina cloridrato, un antibiotico iniettabile, e ora sta collaborando con la società danese Xellia e con la londinese Hikima per la produzione di altri 14 farmaci essenziali. 

L’iniziativa è riproducibile – anche qui, nell’Unione europea – e sta suscitando un grande interesse in tutto il settore. “Ci sono chiaramente degli attori sul mercato che non sono contenti di quello che stiamo facendo”, osserva Martin Van Trieste, amministratore delegato di Civica. 

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