Grecia: l’abuso della custodia cautelare

Nonostante un numero elevato di detenuti e tempi di detenzione di gran lunga superiori alle medie europee, il sistema giudiziario greco fa un abuso sistematico della custodia cautelare.

Pubblicato il: Novembre 18th, 2022
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Il recente rapporto del Consiglio d’Europa sulle carceri evidenzia in Grecia un consolidato ricorso improprio al provvedimento di custodia preventiva, con un importante numero di persone incarcerate senza processo e sottoposte a lunghi periodi di detenzione: la percentuale di chi è stato incarcerato senza processo nel decennio scorso arriva al 30 per cento del totale della popolazione carceraria, e mediamente nel 2021 un detenuto su quattro era in carcere da oltre un anno senza processo.

Come ha rivelato l’analisi dei dati nel rapporto annuale SPACE I 2021 del Consiglio d’Europa sullo stato delle carceri in Europa, al 31 gennaio 2021 su 11.334 detenuti nelle carceri greche 2669 erano in custodia cautelare: il dato corrisponde al al 23,5 per cento della popolazione carceraria, con una durata media della detenzione preventiva di 13,2 mesi.

Osservando a ritroso i dati degli anni precedenti del General Secretariat for Anticrime Policy, anche nel 2020 la situazione era  simile: su 10.891 detenuti 2.892, pari al 26,5 per cento, erano detenuti solo in quanto incriminati. Nel 2019 e nel 2018, il numero dei detenuti in custodia cautelare nelle prigioni greche aveva raggiunto rispettivamente il 31,1 e il 32,5 per cento: quasi un detenuto su tre era in custodia cautelare.

Il carcere preventivo è un anticipo della condanna

Il numero costantemente elevato di detenuti in stato di custodia cautelare solleva la questione del perché le cose stiano così: “In Grecia la custodia cautelare spesso funge da anticipo della condanna, anche se questo aspetto non è contemplato dalla legge” spiega Kostas Kosmatos, professore di criminologia all’Università di Salonicco. “Quindi, nel caso di un crimine grave, la gravità del reato spesso diventa un criterio determinante per imporre la custodia cautelare, anche se il legislatore dice che, da solo, questo aspetto non è sufficiente.”

La situazione peggiore del decennio si è avuta nel 2012 e nel 2013, quando rispettivamente il 34 e il 34,6 per cento della popolazione carceraria nel paese era in custodia cautelare. La media dei detenuti in carcere preventivo nel decennio 2010-2020 in Grecia ha raggiunto il 30 per cento.

Anche Nikolaos Koulouris, professore di politiche carcerarie all’Università della Tracia, parla del ricorso alla custodia cautelare come di un provvedimento “prima della condanna” in termini di valutazione fatta secondo la legge vigente da procuratori e inquirenti sulla base dell’esistenza di prove solide e “attendibili” che il crimine per il quale una persona è accusata è stato commesso e quella persona ne è colpevole. Si tratta di un verdetto di colpevolezza pre-sentenza che può condizionare i giudici. Questi ultimi, infatti, vedono quali persone accusate arrivano a processo in stato di libertà o di libertà vigilata oppure sono trasferite dal carcere come detenuti in custodia cautelare. Quando accade, è difficile che ciò passi inosservato, proprio per le circostanze che il Codice di procedura penale prevede per il carcere preventivo che, oltre alla presunzione di colpevolezza, si rapportano anche allo status sociale e penale dell’accusato, in particolare alla mancanza di residenza nota, alla sua fedina penale, al rischio di commettere altri reati e, in generale, a qualsiasi cosa i funzionari giudiziari reputino che possa indicare una tendenza a volersi sottrarre a una condanna e un precedente coinvolgimento in un’azione penale.

La custodia cautelare è una delle tre misure restrittive che le autorità giudiziarie possono decidere di applicare a un accusato prima del processo. Le altre due sono misure restrittive note (per esempio, l’obbligo di firma alla questura una volta al mese e il divieto di lasciare il Paese, etc.) e gli arresti domiciliari con strumenti di monitoraggio elettronico, il cosiddetto braccialetto. Ma quando e in quali casi i giudici possono decidere di applicare la custodia cautelare prima del processo?

Secondo il Codice di Procedura penale (CPP), la custodia cautelare può essere imposta nel caso di un crimine nel quale vi sono indizi attendibili di colpevolezza dell’accusato per impedire che commetta altri reati o si renda irreperibile. La custodia cautelare è imposta se si ritiene con relativa certezza che il provvedimento restrittivo degli arresti domiciliari con monitoraggio elettronico (braccialetto) non sia sufficiente, e se l’accusato non risiede presso un indirizzo noto o ha effettuato piani di fuga.

Il limite massimo di durata della detenzione preventiva per uno stesso crimine è di un anno, e “in circostanze del tutto eccezionali”, come descritto nel CPP, tale durata può essere estesa di ulteriori sei mesi se il crimine di cui è accusato il soggetto comporta una condanna all’ergastolo o superiore a 15 anni di reclusione. Tuttavia, anche questo periodo massimo di 18 mesi della custodia cautelare (garantita dalla Costituzione) può essere “superato” e prolungato di un altro anno se nei tre mesi antecedenti alla scadenza della custodia cautelare subentra un’ulteriore accusa per un altro reato.

I requisiti di legge o la gravità del reato non sono gli unici fattori che influiscono sulla discrezionalità dei giudici. La decisione di applicare la detenzione preventiva, sottolinea Kosmatos, “è collegata anche alla visibilità del caso (nei media) e al suo impatto sull’opinione pubblica. Penso che la pressione di quest’ultima sia sempre in grado di influire in certa misura sulla sentenza”.

D’altra parte, sottolinea Kouloris, in molti casi le autorità giudiziarie “che hanno un’idea a grandi linee di quello che significa essere un criminale pericoloso, applicano un trattamento discriminatorio sfavorevole a individui di una data appartenenza sociale. In altre parole, alcuni fattori esterni influenzano il parere dei giudici. Per esempio, se l’accusato è uno straniero o un migrante, se fa uso di sostanze che inducono dipendenza ed è coinvolto nel loro traffico o nello spaccio per strada, il giudizio sull’inadeguatezza di altre misure restrittive più leggere per garantire la sua presenza al processo nel quale si applica la detenzione preventiva si forma con maggiore facilità rispetto al caso di un connazionale benestante accusato di un reato finanziario. Le autorità giudiziarie sosterranno che nel caso del primo esiste un rischio reale e maggiore di fuga; tuttavia, nella letteratura forense alcune caratteristiche sociali dell’accusato creano quello che potremmo chiamare un bias inconsapevole che si riflette anche nel giudizio riguardante l’imposizione o meno della custodia cautelare”.

I dati nel rapporto del Consiglio corroborano appieno l’opinione di Koulouris. Secondo questi dati, su 2662 detenuti totali in custodia cautelare nel 2021, i detenuti stranieri erano 1718, quelli greci 944. Si tratta del 64,5 per cento.

“Questi numeri riflettono la criminalizzazione della povertà e dell’immigrazione” commenta Kostas Papadakis, avvocato con una lunga esperienza, ed ex membro del Consiglio di amministrazione dell’Ordine degli avvocati di Atene, e aggiunge che “i pregiudizi xenofobi contribuiscono a un trattamento discriminatorio della popolazione straniera e portano alla loro incomprensibile detenzione. Questi individui spesso sono trattati come cittadini di terza categoria, costretti a difendersi negli interrogatori e nei processi senza capire molto dei documenti del caso, con un interprete che spesso non traduce nella propria lingua madre ma in una intermedia come l’inglese.”

Più di un anno in prigione senza processo

Tuttavia, esiste un ulteriore elemento importante che non solo differenzia la Grecia dagli altri in Europa, ma rivela ancor più quanto nel sistema della giustizia penale in Grecia sia radicato il ricorso alla custodia cautelare come sistema di pena anticipata. Secondo le analisi del rapporto del Consiglio d’Europa, in Grecia la durata media della custodia cautelare è di 13,2 mesi, mentre la media europea è di 4,5 mesi. Tra i paesi europei per i quali sono disponibili questi dati, infatti, la Grecia si colloca al primo posto, seguita dal Portogallo con una durata media di 11,3 mesi e dall’Italia con 7,6.

L’unico paese che in Europa supera la Grecia (ma non appartiene all’Ue) è la Serbia, con una durata media della custodia cautelare di 17,9 mesi.

“Abbinata alla lentezza dell’amministrazione della giustizia penale, la durata massima della custodia cautelare consentita dalla Costituzione e dalle leggi procedurali, 18 mesi, crea un contesto che facilita una lunga permanenza in prigione, durante il processo, in uno stato sub-giuridico”, spiega Koulouris in merito a quello che il rapporto ha evidenziato.

Kosmatos concorda, sottolineando che “di sicuro ciò ha a che vedere con i tempi lenti della giustizia penale e nei processi con molti imputati è perfino più difficile”. Tuttavia, il problema deve essere messo in relazione anche con l’intero apparato e l’infrastruttura degli interrogatori, sia in termini di materiale che di personale umano (personale preparato in varie discipline scientifiche). Per esempio, sottolinea Kosmatos, “per tradurre un documento del fascicolo della causa, lo si deve spedire all’Ufficio affari esteri e occorre attendere dai due ai sei mesi. In altri casi che coinvolgono aspetti finanziari e bancari, invece, viene nominato un esperto che presenterà le sue conclusioni dopo vari mesi. L’iter investigativo non prevede soltanto le deposizioni dei testimoni e degli accusati, ma anche una serie di passaggi e di fasi investigative che comportano l’intervento di laboratori, esperti forensi, testimoni esperti, e servizi che non ricadono nella giurisdizione dei tribunali”.

Nel frattempo, il ricorso improprio al provvedimento della custodia cautelare e i lunghi periodi di detenzione prima che si svolga un processo hanno, come è comprensibile, un impatto collaterale notevole sul ben noto problema cronico del sovraffollamento delle carceri greche che esaspera le condizioni di vita. Queste ultime non sono state alleviate nemmeno durante la pandemia da Covid-19, perché lo stato greco,a differenza della maggior parte dei paesi europei, non ha preso iniziative volte a ridurre la congestione del sistema penitenziario, come ha dimostrato un’indagine del MIIR/IMEdD sulla diffusione del Covid nelle carceri della Grecia. Al contrario, anzi, in quello stesso periodo la popolazione carceraria è aumentata, evidenziando nel 2021 un aumento del 3,6 per cento rispetto al 2020. In quello stesso periodo, la percentuale della capienza sulla base dell’analisi comparativa dell’attuale popolazione carceraria e dei posti in ogni carcere ha superato il 111 per cento, mostrando sovraffollamento con 111,4 prigionieri ogni 100 posti. Si tratta della seconda prestazione peggiore in Europa dopo la Romania.

Detenuto per sette mesi per scontri in una manifestazione avvenuta mentre stava giocando una partita di basket

I criteri adottati spesso da procuratori e inquirenti per procedere ad applicare la carcerazione preventiva suscitano l’indignazione dell’opinione pubblica, non ultimo per la selettività che comportano, ma anche per il trattamento iniquo che possono arrecare agli imputati che si rivelano innocenti, ma che vengono sottoposti alla privazione della libertà e ad altre conseguenze.  Emblematico è il recente esempio dell’ingiusta detenzione per sette mesi del trentenne Alexandros M. (chiamato nei media anche “l’indiano”) in seguito a manifestazioni avvenute nel marzo 2021 a Nea Smirni contro la violenza della polizia. Durante un corteo vi sono stati gravi scontri tra manifestanti e forze dell’ordine e l’aggressione a un agente è stata filmata da una telecamera. Quella sera stessa il Primo ministro Mitsotakis ha fatto una dichiarazione sulle ferite riportate dall’agente (senza parlare della violenza degli agenti documentata da un filmato) e tre giorni dopo Alexander M. è stato arrestato all’uscita dal suo posto di lavoro.

“Alexandros è l’esempio del capro espiatorio per mostrare all’opinione pubblica che è stato arrestato un colpevole” ci dice Pavlov Sarakis, il suo legale. Ad Alexandros è stata contestata la presunta accusa di aver aggredito l’agente proprio nel giorno e all’ora in cui stava giocando a pallacanestro nel quartiere di Elefsina, una zona a 35 minuti di distanza in macchina (quando non c’è traffico) dal luogo dei disordini, circostanza dimostrata dalle riprese filmate, note fin dall’inizio alle autorità inquirenti.

Ciò nonostante, sono stati necessari 7 mesi di privazione della libertà prima che Alexandros fosse rilasciato, e 14 prima che fosse scagionato del tutto con una sentenza del Consiglio giudiziario ateniese.

“Alexandros, uomo dai mezzi modesti, ha sofferto in modo inimmaginabile, fisicamente e psicologicamente” racconta Sarakis, tralasciando le accuse di opportunità politica nei confronti del governo e dei ministeri, nonché delle autorità giudiziarie, dal momento che queste ultime hanno deciso la custodia cautelare “perché la presunta vittima era un agente di polizia”.

In Europa un detenuto su cinque è in custodia preventiva 

Secondo un recente studio sulla questione della detenzione preventiva a livello europeo dell’European Data Journalism Network, di cui fa parte MIIR, nelle prigioni europee un detenuto su cinque si trova in questa situazione. Nel 2021 nelle celle delle carceri europee vi erano complessivamente 100mila detenuti in custodia cautelare, e la percentuale media a livello europeo è del 21,6 per cento.

Per questa analisi si è fatto ricorso alla metodologia della categoria generale del rapporto SPACE I dei “detenuti che non scontano una sentenza definitiva”, perché nella maggior parte dei Paesi lo status legale è il medesimo e molti Paesi non ripartiscono i loro dati in tutte le categorie. Per esempio, Grecia e Austria identificano i detenuti in carcere preventivo in questa categoria, mentre la Francia, invece, li include così come i detenuti in attesa di appello, anche se sono un’esigua minoranza (7 per cento).

Nel grafico sottostante una dettagliata ripartizione del numero e delle percentuali di carcerati in detenzione preventiva, divisi per stato membro dell’Ue.

Il limite legale massimo previsto per la carcerazione cautelare varia nei paesi europei, e quindi non si possono trarre conclusioni uniformi. Regola comune, stabilita dalla Convenzione europea per i diritti umani, è che una persona in carcere preventivo ha il diritto “a essere processata in tempi ragionevoli oppure a essere scarcerata”. Il problema è che “tempi ragionevoli” è una definizione vaga. A seconda dei diversi sistemi di accertamento penale, delle modifiche e delle estensioni dei limiti consentiti, così come di altre variazioni legate al tipo di crimine, il periodo massimo che un imputato può trascorrere in carcerazione preventiva (e spesso soltanto per taluni crimini) è di sei mesi in Germania e Croazia, di un anno in Italia, di 18 mesi in Grecia e in Bulgaria e tra uno e due anni in Ungheria, Spagna e Francia, in funzione della gravità del reato.

L’analisi della Corte europea di giustizia sulla detenzione e l’umiliazione di 27 donne positive all’HIV

Le lancette tornano al maggio 2012, l’anno in cui la polizia greca, su disposizione dei ministri della Protezione civile e della Sanità, lanciò una campagna di arresti di donne positive all’HIV nel centro di Atene motivandola con la sicurezza e la salute pubblica. Centinaia di donne furono arrestate e sottoposte a forza al test dell’HIV. Ventisette di loro sono state arrestate con l’accusa di lesioni personali gravi e intenzionali per aver consapevolmente diffuso il virus – pur non sapendo di essere sieropositive – mentre venivano umiliate dalla pubblicazione dei loro dati e delle loro fotografie.

Vi furono molti altri arresti che, però, non portarono a divulgare altri dettagli in seguito all’indignazione internazionale e alla reazione di vari enti e organizzazioni greche. Negli anni seguenti le donne furono rilasciate, ma nel frattempo molte di loro avevano trascorso fino a 11 mesi in carcere e le notizie su di loro e le loro fotografie, per quanto tolte dai siti web ufficiali della polizia, circolano su Internet ancora oggi. In particolare, una donna si suicidò dopo la scarcerazione e altre sei morirono per motivi legati alle dure e precarie condizioni di vita in carcere e al mancato sostegno ricevutoi.

“Si potrebbe affermare che è arbitrario collegare le morti delle donne alle campagne di arresti e alla detenzione; tuttavia, quelle donne vulnerabili non ricevettero aiuto dallo stato né indennizzi o risarcimenti per quello che dovettero soffrire a causa delle decisioni delle autorità e dei funzionari statali che le hanno segnate per sempre”, dice Eleni Spathana, avvocata che insieme ad altri colleghi del Lawyers’ Group for Refugee and Migrant Rights ha difeso molte di quelle donne. “Al contrario, quelle donne furono imprigionate, umiliate, stigmatizzate in vita e dopo morte, e usate in una chiara operazione di opportunismo politico proprio prima delle elezioni del 2012. All’epoca, nell’ambito della dottrina vigente dell’ordine e della sicurezza pubblica incluse nella ‘tutela della salute pubblica’, la classe dirigente di allora dei ministeri della Salute e della Protezione civile si lanciò in una caccia alle streghe, con le iniziali dichiarazioni del Ministro della Salute Loverdos sulle ‘bombe sanitarie nell’area di Atene, sugli immigrati che diffondevano malattie infettive etc.’”, e fu emessa “la deprecabile Ordinanza sanitaria che, tra altre cose, costrinse a esami medici e ospedalizzazioni forzate in determinati luoghi, interferendo così con la privacy personale e invadendo illegalmente gli spazi della quotidianità”.

Spathana ammette anche “l’enorme responsabilità delle autorità inquirenti e della procura, che cofirmarono quelle imputazioni inconsistenti, mandandole in prigione”.

Con l’assistenza legale del Lawyers’ Group, tredici donne positive all’HIV hanno depositato presso la Corte europea dei diritti umani istanze di violazione dell’Articolo 3 – per essere state costrette a un trattamento disumano e degradante e per essere state sottoposte a privazione illecita della libertà e alla detenzione, oltre che all’obbligo del test dell’HIV – e anche istanze di violazione dell’Articolo 8, per le umiliazioni subìte e per la violazione della sfera personale e della vita familiare. Spathana aggiunge che gli avvocati hanno chiesto alla Corte di “agire e includere nelle sentenze anche le donne decedute, come già fatto dalla Corte in casi simili eccezionali di violazione dei diritti umani che hanno avuto conseguenze enormi e significative per interi gruppi di persone e che preoccupano la società e l’opinione pubblica”.

Al momento, si attende la decisione dell’ECtHR sulle richieste di appello.

Oltre alla possibilità di ricorrere presso la Corte europea, la legislazione greca prevede il diritto a un indennizzo per chi è stato detenuto ingiustamente. Secondo la CPP, il risarcimento può variare dai 20 ai 50 euro per ogni giorno di carcere, a seconda della situazione economica della vittima che ricorre.

“Le cifre dell’indennizzo previste dal Codice sono esigue” commenta Papadakis. “Di gran lunga più vergognoso è chiedere la dichiarazione dei redditi e far dipendere l’importo del risarcimento dalla situazione economica della vittima e calcolare, per esempio, quanto avrebbe guadagnato se fosse rimasta in libertà, come se stare in carcere ingiustamente non fosse una perdita da risarcire a prescindere”, ha aggiunto in tono sostenuto.

“A quanto pare, nessuno lo considererebbe un quid pro quo proporzionato a fronte dell’ingiusta privazione della libertà.”

Data Visualizations: Corina Petridi

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